Daily Brief – Mercoledì 29 gennaio 2025
Great Resignation: l’identikit degli italiani che lasciano il lavoro
Il “lavoro duro” e la carriera a tutti i costi non sono più credibili
10 Maggio 2022
- La “Grande Rassegnazione” lancia i segnali per il futuro del lavoro
- La qualità della vita lavorativa è il nuovo mantra per il mondo aziendale
- Nuove Generazioni e Adulti insieme possono innescare la nuova rivoluzione del lavoro
Grandi Dimissioni o Grandi Omissioni?
Il fenomeno denominato “Big Quit” o “Great Resignation” è nato Oltreoceano come un’ondata senza precedenti storici di lavoratori dimissionari. Dopo i cataclismi economici del 2020, alcuni economisti statunitensi, analizzando la fase della ripresa, si sono accorti dell’aumento del numero di dipendenti che si dimettevano spontanemente. Nel 2021, negli Stati Uniti, quattro americani su dieci hanno deciso di cambiare lavoro, di abbandonare la propria carriera o di avviare un’attività autonoma lasciando il posto di lavoro in cui avevano vissuto gran parte della loro vita, facendo diventare questo comportamento una sorta di fenomeno di massa. Un discorso che, insieme alle tendenze economiche, sociali, tecnologiche, si è allargato: in Australia un lavoratore su due pensava di lasciare il lavoro; in Cina i giovani hanno iniziato a rifiutare di lavorare perché si sentivano solo un ingranaggio del sistema. LEGGI ANCHE: Lasciare il lavoro è virale: la Gen Z festeggia il licenziamento sui socialLe Grandi Dimissioni in Italia: come sono gli italiani che lasciano il lavoro
Con una portata più ridotta, il fenomeno sembra sia stato avvertito anche in Italia: nel secondo trimestre del 2021 il boom è stato dell’85%, mentre nel terzo la media è stata del 26,7%. Alcuni hanno letto questi numeri come una risposta ai mesi di pandemia, altri invece hanno teorizzato un mutamento sostanziale e ormai inarrestabile dei paradigmi lavorativi. Il fenomeno delle “grandi dimissioni” in Italia si è affermato nel corso del 2021 con un tasso di dimissioni (il numero di dimessi sul totale dei lavoratori dipendenti) che ha superato il 3% nel quarto trimestre dell’anno passato (un numero mai visto nell’ultimo decennio). Questi numeri sembravano indicare un fenomeno simile a quello americano anche perché l’autunno del 2021 ha comportato un aumento del numero di lavoratori dimissionari che ha superato il mezzo milione di persone. Un primo “disclaimer” da tenere in considerazione è che si è trattato in proporzione di numeri molto più piccoli rispetto agli USA. Al di là dell’Atlantico, ogni mese si dimetteva il 3% dei lavoratori, mentre in Italia il 2-3% ogni 3 mesi: la “velocità” era di un terzo in meno. Se è vero che il fenomeno in Italia ha avuto proporzioni molto più contenute rispetto alla “versione originale” statunitense (circa un terzo), allo stesso tempo, esiste ancora una tendenza nel nostro Paese e ci si è interrogati lungamente, e ci si continua ad interrogare, sulle sue cause.Che succede se tutti lasciano il lavoro
Per un’economia, se tante persone si dimettono non si tratta di una tendenza necessariamente negativa: alcuni ricercatori della Banca d’Italia avevano considerato questo fenomeno come “normale” all’interno di una fase di ripresa e ri-equilibratura economica dopo la forte contrazione dovuta alla pandemia. I lavoratori che decidono di trovare nuovo lavoro possono essere addirittura un segnale di vitalità di un mercato: l’assunto è che chi cambia, lo fa per condizioni migliori (la cosiddetta job-to-job transition), per cercare un posto di lavoro migliore e, a livello macroeconomico complessivo, si riflette in lavoratori che possono anche generare una produttività migliore se si trovano a loro agio nei nuovi contesti.
Il pragmatismo vince sulla Great Resignation
Anche il CENSIS ha sancito ad inizio anno che “il pragmatismo ha vinto sulla tentazione da Great Resignation” (cioè dimissioni al buio per cercare un impiego più gratificante), poiché dai dati è emerso che continua a fare troppa paura ritrovarsi nella precarietà del mercato del lavoro. Nonostante questo, l’82,3% dei lavoratori (l’86,0% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più. Le cause di questa insoddisfazione annoverate sono tendenzialmente i livelli retributivi inadeguati (che non crescono rispetto al resto d’Europa da troppo tempo), lo stress aggiuntivo sul lavoro accumulato con il lavoro da remoto e le situazioni d’urgenza o la richiesta (da parte dell’86,5% dei lavoratori) di maggiori servizi di welfare aziendale per rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza o l’istruzione dei figli. Forse allora non dovremmo tradurre malamente “Great Resignation” con “Grandi Dimissioni”, semmai letteralmente con “Grande Rassegnazione”. Una rassegnazione dal rapporto lavorativo che negli anni di pandemia ha accentuato tutti gli aspetti di sfiducia e malessere collegati alla vita professionale. Ma al di là degli aspetti strutturali ed economici, quali sono i “demotivatori”, le cause intrinseche alla “Grande Rassegnazione”? Tornando al contesto americano, una ricerca del MIT Sloan Management Review ha identificato alcuni fattori che in maniera più marcata causano l’abbandono del lavoro presente da parte dei “grandi dimissionari”:- la cultura tossica (come l’incapacità di promuovere la diversità, l’equità e l’inclusione; dove i lavoratori si sentono mancati di rispetto ed esistono comportamenti poco etici all’interno dei processi di lavoro);
- la precarietà, l’instabilità occupazionale e le continue ristrutturazioni che influenzano continuamente il turnover dei dipendenti;
- la mancanza di riconoscimento delle performance laddove le aziende che non premiano le performance migliori riscontrano tassi di abbandono più elevati; oppure quando i dipendenti parlano più in generale della carenza di politiche della propria azienda per la protezione della salute e del benessere;
- i tassi di innovazione troppo alti e la difficoltà a stare dietro ai cambiamenti di questo tipo: rimanere all’avanguardia richiede ai dipendenti di dedicare più ore, lavorare a un ritmo più rapido e sopportare più stress di quanto farebbero in un’azienda che si muove più lentamente. Il lavoro può essere eccitante e soddisfacente, ma anche difficile da sostenere a lungo termine.

Yolo Economy, Tang Ping e gli “Sdraiati” del mercato del lavoro
Il senso di malessere e di rassegnazione dall’avere fiducia in un rapporto di lavoro soddisfacente è arrivato simultaneamente in tutto il mondo, facendo ribattezzare in alcuni ambiti questo nuovo approccio al mercato del lavoro come YOLO economy, dove YOLO sta per You Only Live Once, cioè “Si vive una volta sola”. Un acronimo che è tornato in auge negli ultimi anni a partire dal mondo rap americano (comunemente era attribuito all’attrice Mae West già ai primi del novecento: “si vive solo una volta, ma se lo fai bene, una volta è sufficiente”) e che è stato abbinato spesso e volentieri alla generazione Millennial che nel decennio precedente ha espresso marcatamente la rilevanza dell’ experience (“meglio un passaporto pieno di timbri che una casa piena di oggetti”) e del purpose anche nel contesto lavorativo. In questa fase questo hashtag assume molto meno il suo senso edonistico, di disimpegno dalle responsabilità, o del vivere alla giornata, e si può tradurre con la voglia di vivere un’esistenza piena di significato, dove vita e lavoro sono armonizzate, e dove le scelte professionali aderiscono alla propria identità. Andando oltre i fattori estrinseci dello stipendio, della carriera e dei benefit. La YOLO economy sembra essere la vera grande discriminante tra il prima e il dopo pandemia. Sta di fatto che questo nuovo approccio sta cambiando il punto di vista con cui i lavoratori interpretano il mercato e come scelgono di viverlo. È stato rilevato che l’Italia ha un discreto numero di “intenders”, ovvero chi ha intenzione di cambiare lavoro nei prossimi mesi, e secondo le riflessioni contenute nell’ultimo report Microsoft Work Trend Index non sottovalutare questa tendenza è importante soprattutto per le nuove generazioni, che in azienda possono offrire nuove prospettive e modificare lo status quo soprattutto nell’ambito manageriale.