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Back to office: numeri e prospettive delle forme di lavoro flessibile
L’84% delle persone punta al lavoro agile e il 50% lo vorrebbe per più di 3 giorni alla settimana
1 Dicembre 2021

Lavoro flessibile tra Smart working, Remote Working, Home Working, Telelavoro ed Hybrid Working
Mentre sperimentiamo uno status ibrido organizzativo, in questi mesi si vivono paradossi e situazioni surreali: negli uffici dove si dovrebbe stare insieme, spesso si continua ad essere isolati tra una videocall e l’altra; abbiamo acquisito la conoscenza di numerosi strumenti digitali che dovrebbero permetterci una giornata di lavoro più duttile, ma non siamo mai stati così poco “smart” (se non addirittura al limite del burnout digitale); a livello emotivo lo stato di estenuazione e abbattimento fisico e psichico dovuto al periodo di emergenza che abbiamo vissuto si traduce in rilassamento e in un “languore” soprattutto sul piano professionale; non stiamo coinvolgendo le nuove generazioni nel confronto con i senior nel formulare gli stili di lavoro del futuro.
L’evoluzione del lavoro a distanza
Nel guardare a questa evoluzione, purtroppo, molti sono vittime delle etichette mediatiche che vengono attribuite allo “smart working”, confuso sprovvedutamente con l’“home working”, il “telelavoro” o il “remote working”, che sono state le effettive modalità di lavoro sperimentate durante la pandemia. Senza essere pedissequi è bene ricordare in ogni occasione la traduzione italiana che viene fatta di questo termine, soprattutto in termini legislativi (già prima del Covid-19):“Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”. In questa giungla terminologica la speranza è che ci sia la possibilità di recuperare la dimensione vera dello smart working, per la quale si impara ad essere nel posto migliore in cui poter raggiungere i risultati oppure, nel caso in cui dobbiamo prevalgono altri interessi (come, ad esempio, il work-life balance) si impara a lavorare al meglio nella condizione in cui ci si trova. Il nodo cruciale dell’applicazione del lavoro flessibile e agile non può passare solo per i vincoli orari e spaziali su cui tutti ci siamo fissati per inevitabili motivi tecnici, normativi o sindacali. Il cuore del problema è sulla riformulazione di “fasi, cicli e obiettivi”: perché ci siamo accorti che lavorare “a distanza” ottimizza e semplifica alcune cose, ma ne inficia altre; perché incontrarsi fisicamente contribuisce alla creatività, forse alla motivazione, e di certo alla cultura aziendale, al senso di appartenenza e, probabilmente al perché lavorare presso un brand anziché un altro. La grande scommessa allora per le aziende e il management è quella di mettere mano ai processi di lavoro: alcuni cristallizzati da decenni e semplicemente riconfermati negli audit di qualità di anno, in anno; altri più avanzati e già declinati nei team di lavoro ma tutti da rodare e migliorare alla luce delle difficoltà tecniche oggettive, o delle resistenze al cambiamento delle popolazioni aziendali. Oppure no? Può essere una strategia innescare una restaurazione dei processi consolidati e ben rodati del 2019? Magari anche solo per far respirare ai dipendenti il “ritorno alla normalità”, il conforto delle routine di una volta. Sarebbe possibile privilegiare la sicurezza psicologica della propria popolazione aziendale e la cura di quei collaboratori che trovano nel lavoro “rifugio” dalle difficoltà di gestione familiare; oppure maggiore focus favorito dal workplace (anziché dallo strapuntino ricavato in un angolo di casa, sollecitati continuamente dalle faccende domestiche) e anche maggiore tempo per sé (magari proprio nel tragitto casa-lavoro).
Lavoro flessibile: il south working e il nuovo rinascimento del nomadismo digitale
Sono comunque molte le persone che riportano un senso di gratificazione e soddisfazione all’idea che potranno anche in futuro gestire parte della loro attività lavorativa non in sede: la combinazione di flessibilità oraria e flessibilità “geografica” fa sentire meglio le persone, almeno sulla carta. Ma perché? C’è un’idea sottesa di libertà e di personalizzazione nel lavoro flessibile: poter scegliere in autonomia, avere capacità decisionale nel poter scegliere di volta, in volta il contesto privilegiato per portare a termine un compito o un progetto, o attribuzione di responsabilità e fiducia nell’altro. Non è un caso che per i dipendenti aziendali alcune riflessioni si siano coagulate sull’idea del lavoro non necessariamente in uffici incardinati in zone urbane (nel nostro Paese storicamente nel Nord Italia). Stiamo parlando del south working, un lavorare delocalizzato per aziende del Nord o comunque di tutto il mondo; prevalentemente al Sud o, come è avvenuto per molti nelle “seconde case” al mare, in montagna o dai parenti in provincia. Un’idea che implica a livello di sviluppo sociale una rinascita dei borghi e delle provincie soprattutto nel Meridione, e dove le difficoltà del lavoro da remoto si equilibrano con un minore costo e una maggiore qualità della vita. Con questo approccio si prefigura un mercato del lavoro molto più inclusivo quello che trasmette offerte di lavoro “100% anywhere” soprattutto per i giovani che spesso non hanno la possibilità di trasferirsi nelle grandi città. LEGGI ANCHE: South Working: una moda o l’inizio della fine del lavoro in ufficio? Ma dietro l’idea del southworking è ben radicata una filosofia molto attuale: adattare la professione al proprio stile di vita, e non il contrario. La community dei Nomadi Digitali lo ha previsto già da dieci anni quanto il modello sano e sostenibile di lavoro sia collegato a godere di maggiore libertà nella gestione del tempo e di avere la possibilità di spostarsi secondo le proprie necessità. Le ragioni che oggi spingono le persone al “nomadismo digitale” sono molteplici, e si tratta di una tendenza crescente non solo tra i giovani, anzi.
La Great Resignation e la fuga dall’azienda verso il lavoro flessibile
Ma che succede se i desideri di nomadismo digitale collidono con le politiche di smart working che i datori di lavoro non stanno adottando, preferendo un ritorno all’ “Old Normal” del 2019 senza valutare forme di lavoro flessibile? Quanto conta lo smart working e la riformulazione dei processi verso il lavoro flessibile con la Great Resignation? Tra aprile e giugno di questo anno ci sono state 484mila dimissioni, in crescita dell’85% rispetto al 2020. Il numero di rapporti di lavoro dipendente cessati per dimissioni del lavoratore è in forte aumento, sia rispetto al trimestre precedente sia rispetto agli anni passati. E nel mondo del lavoro ci si inizia a chiedere se in questa “grande rassegnazione”, sicuramente accelerata dall’esperienza pandemica, sia implicata anche l’esperienza frustrante del lavoro da remoto “forzato” degli ultimi tempi. Oltre alle dinamiche di tipo economico (come la crisi di alcuni settori come il turismo e la ristorazione che hanno costretto molti a migrare verso settori in crescita come il green, il digitale e la salute), l’eterno tema delle retribuzioni troppo basse rispetto ad altri Paesi Europei e gli effetti della Yolo Economy (con un’impennata di oltre 14o.000 aperture di P.IVA nel nostro Paese nel secondo trimestre 2021 – che riguardano giovani fino ai 35 anni) il tema del come tornare a lavorare incide e non poco su questi effetti. Il World trade Index 2021 di Microsoft ha rilevato che più del 33% della forza lavoro globale intendeva lasciare il proprio datore di lavoro attuale entro il 2021 e il 38% prevedeva di trasferirsi cogliendo l’opportunità di lavorare da remoto. Valori più alti tra i Gen Z che addirittura in un caso su due hanno valutato seriamente la possibilità di lasciare i propri datori di lavoro. Un altro fattore che potrebbe spiegare il trend in crescita delle dimissioni è quindi la fine dello smart working per 1,5 milioni di dipendenti: 800mila privati già tornati in presenza al 100% e 700mila dipendenti statali.
Agile Working e nuove generazioni
Lo smart working sembra allora essere diventato più una leva per la retention delle persone in azienda, mentre sembrava essere solo una leva di attraction per i nuovi talenti nel 2019, laddove il lavoro flessibile rappresentava un fattore «determinante» per la scelta del lavoro “solo” per il 62% dei candidati. Secondo un’ultima ricerca di Radical HR Club, su 600 HR Manager sembrano esserci dati confortanti rispetto al fatto che il 90% delle aziende rispondenti fa Smart Working, dando in alcuni casi anche piena libertà e autonomia nella scelta e 7 HR su 10 hanno guidato questa trasformazione nell’organizzazione. Rimane ancora una fetta importante di aziende in cui la leadership è ancorata a vecchi schemi di pensiero e diverse aziende iniziano a perdere talenti per la mancanza di fiducia nelle persone. Come abbiamo visto, la possibilità di avere spazio geografico e flessibilità di tempo per la conciliazione lavoro-vita personale è un fattore determinante per tutte le generazioni. Non è possibile immaginare un New Way of Working senza coinvolgere tutte le generazioni nel disegno di quello che sembra essere davvero una nuova rivoluzione del lavoro. Fruire nel pieno benessere dei luoghi e degli stili di lavoro nel futuro, rinnovare il concetto di workplace, ma soprattutto rendere efficaci ed efficienti i tanti strumenti digitali che abbiamo a disposizione, (senza dimenticare quelli analogici). Le forme di lavoro ibride verso le quali ci si sta dirigendo, suggeriscono un modo di lavorare più umano e più armonioso con la nostra vita personale e professionale. Il mindset più efficace è quello in cui i dipendenti vengono trattati da adulti di cui fidarsi e non come individui da controllare. Le aziende devono fidarsi delle loro persone. LEGGI ANCHE: Una “workforce a 5G”: le sfide generazionali nel mondo del lavoro Come in tutti i fenomeni sociali, però, la popolazione aziendale tenderà a disporsi su una curva gaussiana, dove ci sarà un quinto di estremisti del “full remote” e un’altra di “conservatori” che vorrebbero ritornare alle modalità che abbiamo utilizzato fino al 2019. Come fare per implementare correttamente lo smart working, comprendendo tutte i valori e le istanze generazionali? Rimane importante conoscere da vicino i processi di lavoro delle persone che collaborano nell’organizzazione, perché non è detto che una policy di giorni/periodi/ore di smart working vada bene per tutti nello stesso modo. È fondamentale valutare il valore aggiunto della presenza fisica per ogni singola attività, a livello di funzioni, di sedi e di team. Con una stima (e perché no, un’autovalutazione bottom-up che coinvolga tutte le generazioni) sarà possibile distinguere le attività eseguibili in full-remote da quelle in presenza, così come la possibilità alle persone di auto-organizzarsi in base ai task settimanali. Contemporaneamente sarà necessario lavorare sui gap che innesca il lavoro ibrido o remoto, rispetto al senso di appartenenza con il brand, di collaborazione e apprendimento reciproco.