Daily Brief – Venerdì 17 gennaio 2025
Cosa ho imparato su LinkedIn e sulle aziende facendo l’arbitro di calcio
23 Giugno 2020
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Quando facciamo dei colloqui di lavoro, uno degli argomenti che incuriosisce di più l’HR Manager di turno è quello relativo alle passioni. Ricordo che alle prima interviste rispondevo un po’ svogliato a questo tipo di domanda, come se la questione fosse di poco conto e io avessi già dato risposte esaurienti nei quesiti precedenti. Come se fosse una sorta di obbligo da espletare, dire che “sì, in fondo sono appassionato di viaggi, e poi mi piace la musica rock e il cinema d’essay”. A volte mi capitava di non trovare dall’altra parte qualcuno che mi incalzasse con domande più approfondite e il discorso terminava lì. Tipo, mi sarebbe piaciuto ricevere domande come “Bene, le piace la musica. A quanti concerti è stato l’anno scorso? Quanti CD originali ha comprato? Ha un abbonamento premium a Spotify o simili?”. Confesso che avrei avuto una risposta pronta per ognuno di questi quesiti. E così oggi che le selezioni le faccio io, non resisto alla tentazione di chiedere al candidato che ama viaggiare qual è l’ultimo posto che ha visitato, con che budget, e se ha intenzione di tenere viva questa passione anche in tempi di crisi.
Che gusto c’è a fare l’arbitro?
All’inizio non rispondevo mai che, per passione, facevo l’arbitro di calcio. Mi sembrava una cosa poco rilevante. Anzi mi sembrava come se stessi dicendo che siccome non ero bravo a giocare a calcio – di solito succede questo – avevo ripiegato su un hobby di secondo piano. Ma ho iniziato a mettere fortemente in dubbio questa mia teoria quando sempre più persone, HR Manager e non, mi chiedevano: “Ma chi te la fa fare a fare l’arbitro?”. Nicola Rizzoli, designatore degli arbitri di Serie A e probabilmente uno dei tre arbitri italiani più famosi della storia del calcio (è tra i grandi che hanno diretto una finale di Coppa del Mondo con Gonnella e Collina), ha pubblicato un libro con un titolo molto simile. Si chiama “Che gusto c’è a fare l’arbitro”. In apertura dice una grandissima verità: “Tutti quelli che parlano di calcio hanno giocato a calcio almeno una volta nella vita, ma non tutti quelli che parlano di arbitri hanno provato mai ad arbitrare”. Collina usava invece una metafora ancora più colorita, ispanica: “Una cosa è parlare di tori, un’altra stare nell’arena”.Una cosa è sapere di tori, un’altra stare nell’arena
Io nell’arena ci sono andato per la prima volta a 18 anni. Quel giorno ho capito che nel mondo degli adulti si saluta con una stretta di mano vigorosa ma non eccessiva. Che se la mano è indecisa, probabilmente andrà a rotoli la partita. Che se la voce trema mentre si fa l’appello nello spogliatoio, i giocatori capiranno che in campo potranno fare quello che gli pare. Ma che al tempo stesso non serve snaturarsi e alzare la voce per assumere un atteggiamento autoritario (che è diverso, e molto, da autorevole). Che la sera prima di una partita non conviene farsi vedere in giro per locali e, se si fa, si fa con discrezione, perché si è arbitri dentro e fuori dal campo. Che la puntualità è un dovere di tutti, ma per l’arbitro è un obbligo, così come il decoro. Che la responsabilità ha diverse forme, ma quella del far sì che “vinca il migliore” è una di quelle che presuppone la conoscenza del regolamento, una preparazione fisica adeguata e una concentrazione costante. E che l’educazione è la virtù più apprezzata, specialmente se supportata dalle doti di cui sopra, altrimenti è effimera.
Preparare il terreno
Quando un HR manager mi chiedeva “Chi te la fa fare a fare l’arbitro” rispondevo tutto questo, scavando nel profondo, dove richiesto, su temi come la concentrazione, la conoscenza del regolamento e della preparazione. Raccontavo come approcciavo ad una gara, quanto fosse importante per me arrivare prima per concentrarmi, fare un giro sul terreno di gioco, studiare i nomi dei giocatori, capire chi potessero essere i leader, stringere la mano agli allenatori, studiare persino i colori giusti delle maglie (i frettolosi sbagliano spesso). Ho iniziato a capire allora che ogni progetto andava approcciato così. Senza fretta, con la dovuta programmazione. Spegnendo il telefono se necessario, studiando il terreno, chiamando per nome i referenti, capendo le loro peculiarità (vogliono il “lei” o il “voi”? Preferiscono un confronto più formale e informale?)Autorevole vs Autoritario
Oggi faccio l’arbitro solo per divertirmi. Non ho più velleità e ambizioni di carriera, anche perché mi sono dedicato (con discreto esito) ad altro. Ma la mia passione resta: tra i tanti viaggi che faccio per lavoro cerco sempre di fermarmi il sabato e la domenica per arbitrare una partita, per non perdere l’abitudine. Avere una passione aiuta a fare meglio il resto, e poi ho capito che il mio modo di fare, anche sui social, è figlio di quella passione. Per esempio tendo ad evitare le risse verbali. Non aiutano nel posizionamento e nel comunicare autorevolezza, una cosa che insegno anche nei corsi su Linkedin. Un professionista autorevole – fuor di metafora – mantiene la propria posizione, la comunica in maniera chiara, usando una terminologia tecnica ma stando attento a farsi comprendere. Difende l’operato dei colleghi, non alza i toni, capisce quando deve abbandonare una conversazione anche se non è stato lui a scrivere l’ultima parola.
Prendersi sempre la responsabilità
Sembrerà strano, ma in un contesto digital in cui si tende spesso ad auto-compiacersi a vicenda, salvo poi trovarsi nel mezzo di un shit storm all’improvviso, avere un hobby che ti allena alle critiche (a volte fuori luogo e senza senso) è molto utile. Per esempio ho imparato, gioco forza, a prendermi sempre la responsabilità. Nello sport in generale è una pratica piuttosto comune, basti pensare a chi sbaglia un rigore o all’allenatore che ci mette la faccia nelle conferenze stampa, nelle aziende molto meno. Si tende spesso a scaricare la colpa su altri, alcuni addirittura sugli stagisti o in molti casi sui clienti. Mi è capitato di assistere a riunioni in cui l’unico tema era l’assoluta incapacità del cliente. Incapacità che avrebbe dovuto portare immediatamente l’agenzia a fare una sola scelta: lasciarlo. Ma così non succedeva. Era solo un modo per sfogarsi e non chiedersi mai dove sbagliavamo noi. Nei miei gruppi di lavoro tutto questo è bandito. Piuttosto le persone che lavorano con me mi telefonano per dirmi che hanno fatto un errore. Lo apprezzo, da lì si riparte. Chi scarica su un altro non può far parte della nostra vision. Il cliente non ha sempre ragione, ma se ha torto non saremo certo noi a fargli lezioni di vita. Cercheremo piuttosto di aiutarlo, a meno che non è arrogante, in quel caso prenderemo altre decisioni.Visoni chiare, posizionamento chiaro
Avere visioni chiare aiuta ad avere posizionamento chiaro. Fatele capire queste cose sui social, raccontate su LinkedIn – non ho ancora detto la parola “storytelling”, lo faccio ora – i vostri errori e cosa avete imparato da questi. Ringraziate, siate educati, siate puntuali anche nelle risposte (se dite “ti scrivo questo fine settimana”, fatelo). Rispettate le squadre, e quindi il cliente. Riconoscete i leader. E soprattutto valorizzate le vostre passioni fino in fondo. Sono quelle che vi aiutano a migliorarvi e spiegare le vostre soft skill. Quelle che in quest’epoca di competenze a basso costo contano tantissimo.