Il 70% dei manager ignora l’Intelligenza Artificiale G...
Il pezzo di carta non basta più: cosa emerge dai dati sulle previsioni occupazionali
Esigenze professionali, nuove competenze e inclusione generazionale
4 Ottobre 2021

Cosa richiede il mercato del lavoro
C’è da ricordare sempre, prima di ogni altra considerazione, che la percentuale di italiani che ha solo un titolo di scuola media o elementare raggiunge il 50%, più un ulteriore 8% di persone non-analfabete ma che non possiedono alcun titolo. In pratica, 6 italiani su 10 non hanno un titolo di studio superiore! Molti sono anziani che probabilmente non hanno avuto in passato l’opportunità di proseguire gli studi. Questa è lo scenario che fa da base a tutti i ragionamenti. Pensando ai laureati, questi sono solo il 9% del totale e, ogni anno, i nuovi sono circa 320.000, su una base di circa 1 milione e 800 mila studenti iscritti a corsi universitari o di alta formazione artistico-musicale. Quindi i giovani sono complessivamente più istruiti: il 75% (pari al 9% dei 25-34enni); le facoltà dove orienta le proprie scelte chi si immatricola oggi all’università sono soprattutto Economia, Medicina, Ingegneria e le facoltà d’indirizzo scientifico. Forse questo dimostra allora quanto i giovani siano, tutto sommato, allineati alle richieste del mercato del lavoro. Il tasso di occupazione che infatti viene registrato per queste facoltà (a 5 anni dalla laurea) è intorno al 90%, contro un 75% per le facoltà di ambito letterario, giuridico e psicologico, dove i guadagni sono minori anche dal punto di vista retributivo. Stando alle ultime analisi compiute da Unioncamere, attraverso il Sistema Informativo Excelsior nell’ultimo report “Previsioni Dei Fabbisogni Occupazionali e Professionali in Italia a Medio Termine (2021-2025)”, per il prossimo quinquennio si prevede un fabbisogno occupazionale dei settori privati e pubblici compreso tra 3,5 e 3,9 milioni di lavoratori, di cui 933mila-1,3 milioni di unità determinate dalla componente di crescita economica (denominata expansion demand), considerando anche l’impatto dei diversi interventi previsti dal Governo e dal piano finanziato Next Generation UE. Il turnover riguarderà invece il restante 70% del fabbisogno di occupati. Ecosostenibilità e digitalizzazione saranno quindi sempre di più i temi su cui si concentrerà l’attenzione rispetto allo sviluppo di competenze: la transizione verso la sostenibilità ambientale richiederà competenze green a professioni trasversali in più settori, oltre a tutte quelle professioni più tradizionali già esistenti.

Laurea o Diploma? Questo è il dilemma
In definitiva, è meglio il diploma o laurea per trovare lavoro? Tra i vantaggi di un’educazione non universitaria troviamo la possibilità di apprendere competenze forse più direttamente spendibili, un costo e una durata complessiva del percorso di studio ovviamente minore, probabilmente un inserimento più diretto rispetto ad alcune tendenze di mercato o alle nuove tecnologie, ma di contro vi saranno svantaggi legati all’esclusione da quelle professioni che richiedono un titolo accademico, minori opportunità di ingresso nel settore pubblico o nelle grandi aziende per tipologie di lavori basati sull’economia della conoscenza. Non esiste, ahimè, una risposta univoca, soprattutto in un contesto socio-economico come quello attuale dove tutto è sempre in un perenne cambiamento. Le nostre scelte devono basarsi sempre su un’attenta valutazione di noi stessi rispetto anche alla nostra attitudine allo studio. Sono tanti i ragazzi e le ragazze che non hanno iniziato subito un percorso accademico dopo il diploma e che hanno iniziato a sperimentare il lavoro, per poi iscriversi magari dopo qualche anno ad una facoltà, con alle spalle le esperienze sul campo e decifrando solo in quel modo quale fosse il loro tragitto professionale. In certe situazioni è interessante valutare anche l’offerta dei percorsi ITS, l’Istruzione Tecnico-Superiore che permette studi biennali nei campi della moda, del turismo, delle tecnologie e programmati su base regionale, in base alle peculiarità che quel tessuto economico offre. Nello scenario del mercato professionale sarà molto rilevante anche il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione: la trasformazione demografica potrebbe generare una carenza di offerta di lavoro, rischiando di peggiorare il mismatch nel breve periodo in mancanza di politiche adeguate di re-skill. Insomma, non è mai troppo tardi per imparare e in Italia, diversamente da altri Paesi Europei, il 75% degli italiani fa un mestiere che non corrisponde al titolo di studio che ha ottenuto. Trovare subito un lavoro non significa anche mantenerlo per tutta la vita (come forse avveniva con le generazioni precedenti). Come amava ricordare Maria Montessori “La caratteristica peculiare dell’Università consiste nell’insegnare a studiare. La laurea è solo la prova che si sa studiare, che si sa acquisire formazione da sé stessi e che ci si è trovati bene nei percorsi della ricerca scientifica… Se si è imparato ad imparare allora si è fatti per imparare. Una persona con una laurea è dunque una persona che sa meglio destreggiarsi nell’oceano della formazione. Ha ricevuto un orientamento” Il titolo di studio in fondo è un tassello a metà tra le nostre caratteristiche/attitudini e le opportunità professionali che si presentano e si presenteranno nel mondo del lavoro.
Una scuola efficace, equa, inclusiva e “ibrida”
In uno scenario professionale che lamenta la mancanza di competenze o di titoli specifici per esigenze specifiche, per migliorare la transizione tra il mondo dell’istruzione e quello lavorativo è probabilmente utile pensare ad elementi adattativi della scuola in termini di inclusione e ibridazione tra innovazione e tradizione (tecnologica, metodologica, contenutistica, etc.). In termini generazionali, non dimentichiamo che quando si parla di “ascensore sociale bloccato”, spesso si sottovaluta il ruolo giocato dall’istruzione; da anni esistono dati che dimostrano un legame praticamente ereditario tra il titolo di studio dei genitori e quello dei figli. Un’ultima ricerca INAPP porta nuove evidenze a sostegno di questa tendenza: tra i figli di genitori con la laurea, il 75% ha la probabilità di laurearsi a sua volta. Dato che scende al 48% tra chi ha alle spalle una famiglia dove il titolo di studio massimo è il diploma e al 12% se i genitori hanno la licenza media. Come abbiamo visto, il sistema universitario italiano presenta comunque il problema di produrre un numero consistente di laureati, specie nei settori in cui le imprese ne hanno maggior bisogno. La difficoltà è dovuta anche al fatto che i costi per l’istruzione universitaria sono in aumento e i meccanismi di finanziamento risultano inadeguati (borse di studio insufficienti) o perché pongono il rischio di investimento su studenti e famiglie. Queste ultime spesso non sono in grado di tradurre le informazioni e valutare correttamente il valore dell’istruzione. A livello di sistemi scolastici, non dobbiamo necessariamente replicare i modelli esteri poiché inevitabilmente non si può “fotocopiare” un metodo. Cosa rende un sistema educativo migliore di un altro? È possibile stabilire delle regole generali? Secondo un report di Eurydice la risposta è affermativa se, oltre al perseguimento dell’efficacia, si considera l’obiettiva di una scuola equa e inclusiva.
Per chi suona la campanella? La Scuola come comun divisore di inclusione generazionale
Quando proviamo a considerare quali siano i punti di contatto che possono permettere un dialogo virtuoso tra individui di età distanti, in primis viene in mente il tema della scuola. L’istruzione scolastica è in fondo quell’esperienza, se vogliamo “inevitabile”, da cui siamo passati tutti. L’istruzione obbligatoria, tra l’altro, esiste da più di 150 anni (venne introdotta in Italia già durante l’epoca napoleonica perseguendo un principio molto moderno di uguaglianza di opportunità e poi consolidata ulteriormente dalle Riforme scolastiche principali del nostro Stato come la Legge Casati del 1859 e la Legge Coppino del 1877), pertanto non credo esistano generazioni in vita oggi che non l’abbiano vissuta, anche solo per pochi anni di scuola elementare. Ancor di più, le materie e la struttura dei programmi scolastici istituiti con la Riforma Gentile del 1923, sono rimasti invariati fino agli Sessanta e una buona percentuale di quei paradigmi contenutistici perdura ancora nei programmi scolastici attuali. Tutto questo per dire che “parlare di scuola”, o meglio di apprendimento e educazione, può diventare una chiave di volta per raccontare le differenze generazionali ma anche soprattutto individuare gli elementi di contatto su cui è possibile sviluppare il miglioramento di un’istituzione, come quella dell’Istruzione, che proprio grazie alla condivisione di esperienze attuali mescolate a quelle di chi “ci è già passato”, può sviluppare idee nuove e progresso pedagogico a tutto tondo. L’importante è non cadere nella tentazione da parte della popolazione adulta o genitoriale di dire “la scuola non è più quella di una volta” e di provare a pensare di più fuori dagli schemi. Per anni abbiamo pensato a un’istruzione separata dall’educazione che ha trascinato con sé il disinteresse per la conoscenza e le discipline. Per cambiare le cose è necessario che un’intera generazione di adulti e millennials si fermi a riflettere su questa questione. Forse attualizzando (provandoci ancora una volta) l’idea trasgressiva di Ivan Illich per cui “la scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è”, rivalutando la critica della modernità e della tecnologia verso una nuova coerenza: il dono e la sorpresa costituiti dall’altro possono solo apparire quando questo spazio è aperto.