Dai meme di politica alla politica dei meme: la rivoluzione ...
Robin Good ci racconta la sua Formula di Sharewood, per fare business online senza dipendere dalla pubblicità
Durante la presentazione del libro "Da Brand a Friend" abbiamo scoperto quali sono i passi fondamentali per creare business basati su contenuti di valore e su un seguito di fan appassionati
29 Novembre 2017

Business online senza pubblicità: si può fare, con contenuti di valore
«La pubblicità, per dirla tutta, non vive di qualità ma di popolarità, quindi per andarle incontro ci abbassiamo a fare cose di livello mediocre misurandone i risultati – come le views – e non la qualità. Trovo che ci spendiamo male: per chi come me è appassionato di ciò di cui scrive, non è un fattore positivo». Nei 5 passi della sua Formula di Sharewood, Robin Good individua innanzitutto la necessità per i brand di individuare la propria nicchia di mercato, un’opportunità di business rappresentata da un problema, un interesse o un’esigenza specifica per la quale ci sia domanda misurabile su Internet, ma per la quale ci sia solo un ristretto numero di fornitori in grado di soddisfarla. Tutto questo significa saper far convergere i propri interessi e le proprie capacità con l’effettiva domanda da parte di un gruppo di persone. Quindi sarà necessario produrre contenuti di valore per quella nicchia. Facile a dirsi, ma spesso poco chiaro per molte aziende che faticano a comprendere la definizione di valore, che Robin ci spiega così: «I contenuti di valore sono semplici da individuare: basta guardare a contenuti che non siano recensioni uguali a mille altre, ma invece siano articoli giornalistici o divulgativi sui quali si è speso tempo, e qualcuno ha investito il proprio lavoro. Il valore si crea solo dove c’è un dispendio di energie al di sopra della media, dunque in termini concreti il prodotto realizzato va oltre il dovuto, in maniera significativa, raccogliendo e sintetizzando informazioni, dandomi una visione d’insieme ma mostrandomi voci diverse, organizzando risorse utili sull’argomento. Qualcosa di molto diverso, insomma, dalla recensione di un tool o da un post che esprima opinioni personali».
Qualità anziché quantità, vuol dire anche cambiare l’idea di Influencer
La ricerca del valore non ha nulla a che fare con i tempi velocissimi del web, dettati invece da questo meccanismo tradizionale che dipende dalle views e di riflesso dalla pubblicità: oggi si ragiona ancora troppo spesso nei termini del dover fare mille cose di spessore uno, invece di sole due cose, ma di spessore novanta. La scelta ovviamente è demandata ad ogni azienda, ma in questo senso anche il termine di Influencer dovrebbe cambiare accezione: «Qualcuno mi affibbia questo termine – racconta Robin – e ti faccio un esempio tangibile: mi hanno scritto chiedendomi l’indirizzo per inviarmi una bottiglia di Champagne, perché avevo scritto una recensione riguardo un tool che poi era stato utilizzato in tutte le università italiane. Io non sapevo nemmeno di essere stato così bravo: in genere faccio delle cose che tornano utili a parecchie persone e le persone lo dicono l’une alle altre; di conseguenza agli occhi di quelli che ne beneficiano sono un Influencer, ma io non mi vendo come tale, non sono mai nei tag di qualche brand. Sono Influencer nei fatti ma non nella politica di vendita». LEGGI ANCHE: “C’ero una volta”, un romanzo che tutti i creativi dovrebbero leggere
A chi credono oggi i consumer?
Costruire la propria credibilità condividendo contenuti di valore, naturalmente non esenta dall’errore. «Per quanto possa costare, ogni errore va colto come una opportunità. Affrontare l’errore vuol dire riconoscerlo, con la massima trasparenza: indicare cosa si intende fare perché la cosa non succeda di nuovo. Oltre alle inevitabili scuse, ovviamente». Se oggi i consumatori hanno perso fiducia in ciò che è “ufficiale”, negli sponsor, nelle celebrità e nei grandi marchi, è perché questi non hanno saputo costruire un rapporto umano con le persone. «Non si è solo facciata, si è anche umani realmente e ci si prende delle responsabilità: è un segno etico di correttezza. Non siamo più alla politica del noi abbiamo un prezzo migliore», sottolinea Robin. Parlando ancora di contenuti, valore e spessore, Robin Good aggiunge che il marketing è un settore in cui è facile passare inosservati, perché gli argomenti sono molti e affascinanti, ma il rischio di trattarli tutti è quello di non essere caratterizzati da niente. «Luigi Centenaro fa marketing ma è l’uomo del personal branding, ha scritto il primo libro sul personal branding, ha creato il personal branding canvas, insomma ha sviluppato idee in quella direzione. Chi come Montemagno è più, secondo me, generico, a tutto tondo sul digitale, ha grande popolarità ma non ha uno spessore specifico in una direzione, è un ottimo oratore, un ottimo videomaker, un ottimo divulgatore di idee, più in ambito generalista. Questo per me può essere un limite generale nella strategia dei contenuti: essere troppo larghi». La scelta dei contenuti, in pratica, dovrebbe diventare una contaminazione tra l’editore e il proprio pubblico: è evidente che essere dipendenti dalla pubblicità può porre davanti al pericolo di diventare sempre meno di spessore e non incontrare più il proprio pubblico. «Seguo Jeff Jarvis, che è un paladino del giornalismo innovativo e alternativo e non un marketer e produce sempre idee nuove, modelli di business, di nuovi modi di organizzare i giornali in futuro», ci consiglia Robin. Rinunciare alla pubblicità e sostenersi con i “fan”, il modello verso cui ci conduce questo dialogo su Da Brand a Friend. Ci chiediamo allora, come? E anche Robin Good non ha una risposta preconfezionata: questo è ancora un mondo da esplorare. Se è il pubblico a finanziare, comunque, dovrebbe anche decidere quali progetti seguire e magari quali storie raccontare. In un modello simile avremmo da un lato l’editore come coordinatore e dall’altro il pubblico che decide chi e cosa far crescere, anche all’interno della redazione.Chi e perché dovrebbe leggere Da Brand a Friend
