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Benessere al lavoro: perché è sempre più centrale per le strategie di people&culture
L’età e le età del wellbeing organizzativo
7 Giugno 2023
Wellbeing, Wellness, Welfare: definizione e significato
Può capitare, però, che i termini wellness, wellbeing e welfare siano utilizzati come sinonimi. Si tratta di tre concetti legati all’idea di benessere, ma è giusto riconoscerne le distinzioni. La definizione “formale” di wellness, fornita dal Global Wellness Institute, lo identifica come “il processo di ricerca attiva di attività, stili e scelte di vita che conducano ad una condizione di salute olistica”, dove dobbiamo considerare che questo tipo di benessere può superare il singolo concetto di salute fisica, ma anche verso le altre dimensioni di tipo psichico e sociale. Il wellbeing, invece, fa riferimento ad uno stato d’essere, ad una condizione di equilibrio che si può definire di “buona salute”, sebbene sia più corretto fare riferimento in particolar modo alla salute mentale e alla sfera emozionale. Lo studio del livello di wellbeing di una popolazione aziendale può tornare utile nella misurazione dell’efficacia di determinate politiche di welfare. Quando si parla di wellbeing e felicità, spesso si tende a interpretare queste parole a modo proprio e la definizione odierna di wellbeing è molto eterogenea. Possiamo inquadrare il wellbeing come l’intersezione di più dimensioni: benessere fisico, mentale, emozionale, sociale, lavorativo e sociale, a cui possiamo aggiungere, giustamente, anche il benessere finanziario. Ci sono quindi varie dimensioni che possiamo integrare nel variegato termine “wellbeing”, che dobbiamo considerare anche come l’occuparsi di se stessi e del proprio stato benefico prima di arrivare ad una crisi, cercare di star bene giorno dopo giorno, e costruire in maniera incrementale la propria serenità, senza considerarlo un punto di arrivo. Non raggiungeremo mai necessariamente un punto di benessere finale (o di “felicità”) in nessuna di queste dimensioni. Quando parliamo invece di welfare, stiamo invece considerando tutte quelle prestazioni attivate all’interno di una società a tutela della persona e del cittadino. Non si tratta solo di iniziative statali (il cosiddetto “primo welfare”), ma anche di quei benefit e prestazioni che le aziende erogano a favore dei propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e lavorativa (welfare secondario o privato). Le politiche aziendali volte a garantire il benessere dei collaboratori, li supportano nelle diverse fasi della vita privata basandosi su alcuni pilastri entro cui l’organizzazione si impegna a supportare il collaboratore, tra cui famiglia, benessere, previdenza e salute. Il Rapporto Welfare Index PMI da sempre censisce che le imprese che hanno inserito il welfare nella strategia aziendale ha registrato ritorni positivi sulla produttività. Il lavoratore, sentendosi seguito e apprezzato, tende a impegnarsi di più sul lavoro, e questo comporta, oltre a una maggiore produttività, minori richieste di dimissioni, o anche maggiore attrattività occupazione verso le nuove generazioni di dipendenti.
- career wellbeing: strettamente legato all’ambito lavorativo, riguarda la percezione del lavoro in linea con competenze e aspettative; si parla di career wellbeing quando consideriamo se ci piace cosa facciamo sul lavoro. Si realizza quando i datori di lavoro fanno fare alle persone un lavoro in linea con le proprie aspettative, competenze e interessi, guidandoli nel mettere a fuoco il loro purpose, crescendo come professionisti.
- social wellbeing: riguarda la necessità di avere legami di fiducia e rispetto, in un certo senso relazioni significative nella propria vita; si realizza quando le aziende riescono ad organizzare momenti di incontro informali tra le persone per creare le condizioni affinché si creino relazioni di fiducia attraverso in network professionale.
- financial wellbeing: evidenzia la possibilità di gestire al meglio le proprie finanze; si estrinseca quando nelle organizzazioni viene predisposta formazione sulla gestione finanziaria e vengono messi a disposizione professionisti del settore per supportare le persone, contribuendo a ridurre lo stress quotidiano e ad aumentare la percezione di sicurezza finanziaria a lungo termine.
- physical wellbeing: è legato al corpo e alla salute in generale e in genere alle giuste energie per la vita professionale; si mette in pratica attraverso la formazione su alimentazione e sport, o attraverso le convenzioni con palestre, centri wellness, nutrizionisti e psicologi.
- community wellbeing: riguarda la possibilità di sentirsi a proprio agio nella comunità in cui si vive e alla partecipazione attiva; gli interventi aziendali sono efficaci se fanno sentire le persone in un luogo in cui si sentono sicure e a proprio agio, e permettono di donare parte del tempo o delle competenze per momenti di volontariato o attività che abbiano un impatto sul territorio e verso gli stakeholder in cui le persone vivono.
Benessere Psico-fisico e digitale: cos’è il Burnout
Il “burnout” non è solo un problema delle persone, dei collaboratori, del team. È un problema organizzativo, quando la cultura di un’impresa ha un impatto diretto sulla salute e il benessere dei lavoratori. Come lo ha definito Maslach negli anni ’80, è considerabile come la “sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione, di ridotta realizzazione, che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente”. Più in generale, il burnout è uno stato di esaurimento fisico ed emotivo. Può verificarsi quando si subisce uno stress a lungo termine nel proprio lavoro o quando si lavora in un ruolo fisicamente o ad alto impatto emotivo per molto tempo e che comporta alcuni sintomi rilevanti come: il sentirsi stanchi o “svuotati”, impotenti, intrappolati, sopraffatti, distaccati, avere un atteggiamento cinico o polemico, ma anche la tendenza a procrastinare e mettere in dubbio le proprie identità. LEGGI ANCHE: Il Quiet Quitting non è (solo) lavorare meno, ma lavorare meglio Sempre più membri della Generazione Z si stanno affacciando sul mondo del lavoro e l’attenzione crescente verso la salute mentale e il benessere soprattutto psichico sembra stia nascendo anche grazie al loro avvento nelle organizzazioni. Secondo le statistiche, infatti, la Gen Z concepisce il lavoro in modo diverso rispetto alle precedenti generazioni: i giovani lavoratori, oggi, non sono più disposti ad accettare organizzazioni autoritarie, orari di lavoro troppo pesanti o mancanza di flessibilità all’interno di un’organizzazione. Inoltre, dopo essere stati isolati negli anni della pandemia, una delle maggiori difficoltà per la nuova generazione di professionisti è rappresentata dalla gestione dei legami interpersonali e dalle relazioni sul posto di lavoro. Per i datori di lavoro, accogliere queste esigenze può diventare sempre più importante: i giovani lavoratori, infatti, hanno sempre più necessità che un’organizzazione li comprenda come individui più ancora che come semplice forza lavoro. Perseguire gli obiettivi del benessere psico-fisico, però, non significa porre attenzione solo sugli aspetti di prevenzione della salute mentale, della gestione dello stress ma, in maniera più olistica ed “ergonomica” considerare i temi del benessere familiare, della personalizzazione del workplace e delle forme equilibrate ed ibride di smartworking. Un errore comune può essere quello di fare del benessere una forma di lavoro in più per i propri lavoratori. Ospitare sessioni di yoga o all’ora di pranzo o di mindfulness dopo il lavoro, che si aggiungono alle già traboccanti to do list non risolve di certo il problema, anzi lo amplifica e può rendere tutto anche più frustrante. Avere una cultura del benessere nell’organizzazione significa soprattutto cercare modi di rendere le attività lavorative quotidiane più incentrate sul wellbeing, magari costruendo una cultura delle riunioni più sana, gestendo meglio gli aspetti della comunicazione asincrona e così via. La “sicurezza psicologica”, inoltre, è un paradigma che non può essere dimenticato in quest’ottica e che riguarda trasversalmente tutte le generazioni. Si tratta della percezione condivisa dai membri di un team secondo cui una persona non viene punita o umiliata per aver parlato esprimendo idee, domande, preoccupazioni o errori. Non nasce spontaneamente, è una condizione che deve essere costruita con azioni consapevoli e il primo passo è creare un senso di belonging: le persone devono sentirsi accettate per essere in grado di contribuire pienamente al miglioramento dell’organizzazione in cui lavorano. Questo significa sentirsi liberi di essere sé stessi ed essere accettati così per come siamo; avere la possibilità di apprendere e crescere facendo domande, dando e ricevendo feedback, sperimentando e facendo errori; mettere a frutto realmente le proprie competenze per dare il proprio contributo; poter parlare e sfidare lo status quo quando c’è opportunità di crescita e miglioramento. Accanto a questi aspetti non va dimenticato tutto ciò che concerne la salvaguardia del benessere digitale. Una nuova mentalità, improntata alla crescita e allo sviluppo di sane abitudini digitali, dovrebbe infatti abbracciare il lavoro ibrido, adattandolo con trasparenza e coerenza con i valori e lo scopo dell’organizzazione. Anche gli impatti negativi dei burnout si possono ridurre incorporando e abbracciando i principi del benessere digitale, creando la giusta cultura digitale modellata sulle necessità di ogni singola realtà aziendale. Il digital wellbeing è quindi una strategia: il benessere al lavoro può e deve essere raggiunto anche nel mondo del digitale. È il modo per far sì che l’inevitabile transizione verso un mondo sempre più digitale sia chiara, trasparente, rivolta alla comprensione e all’equilibrio. Il digital wellbeing è anche una competenza. Come sottolinea Alessio Carciofi, si può intendere il digital wellbeing come l’insieme delle pratiche, dei comportamenti e delle decisioni che riguardano i propri collaboratori e l’uso che essi fanno della tecnologia. Non riguarda semplicemente il “digital detox”, ovvero evitare la tecnologia o scollegarsi dal digitale per determinati periodi di tempo. Si tratta di un modo olistico di pensare a come, quando, dove e perché si sta interagendo con la tecnologia e quali potrebbero essere gli effetti di tali scelte su altri aspetti della salute. LEGGI ANCHE: Lavorare nel Metaverso è possibile? Lo abbiamo chiesto al mondo degli HR italianiLa relazione tra wellbeing ed engagement dei dipendenti
Nel raggiungimento del benessere al lavoro, esiste una relazione stretta tra wellbeing ed engagement, poiché il coinvolgimento è un grande trigger per il career wellbeing, ma abbiamo visto come un’azienda non può occuparsi di come far crescere l’engagement senza tenere in considerazione tutti gli aspetti del wellbeing delle proprie persone. In assenza di un buon lavoro e di una carriera soddisfacente, non c’è wellbeing e quando le organizzazioni metto in pratica azioni e programmi volti ad aumentare sia il wellbeing sia l’engagement, gli effetti si moltiplicano e sono reciprocamente vantaggiosi sia per i dipendenti, sia per i risultati aziendali. Tutto ciò che riguarda il benessere psico-fisico e digitale è strettamente connesso ai temi della vitalità al lavoro, poiché comprendono gli aspetti dell’energia, del vigore e della salute della persona. Ma per sviluppare appieno il wellbeing degli individui è fondamentale fare riferimento a quelle dimensioni che Martin Seligman racchiude nel suo modello PERMA di “psicologia positiva” come la capacità di sperimentare emozioni positive, di coinvolgimento verso gli obiettivi, di percepire la sensazione di crescita e di progresso, così come la costruzione di relazioni autentiche, di senso di comunità e la chiarezza verso il senso e lo scopo che sono relative agli aspetti valoriali sul lavoro. LEGGI ANCHE: Come motivare generazioni differenti di lavoratori in aziendaBenessere al lavoro: economico finanziario
In questa esplorazione del benessere al lavoro non possono sfuggire alcuni aspetti fondamentali, come ad esempio il benessere sotto il profilo finanziario. Gli ultimi anni hanno visto sfide globali senza precedenti sotto forma della pandemia, seguite da una “grande rassegnazione” e prezzi in forte aumento, spinti dai problemi della catena di approvvigionamento globale e dalla guerra in Ucraina. L’impatto ha colpito le famiglie di tutto il mondo. Una ricerca del CIPD ha rilevato che in UK oltre un quarto dei dipendenti afferma che le preoccupazioni legate al denaro influiscono sulla loro capacità di svolgere il proprio lavoro.
Il benessere al lavoro rispetto alle età
Come innescare meccanismi di inclusione generazionale nelle strategie di wellbeing e quali sono le modalità con cui renderlo effettivo nello scenario culturale dell’organizzazione? Può essere interessante partire dalle strategie di engagement familiare e alle politiche aziendali di conciliazione lavoro-famiglia per immaginare un paragone più pratico. Ad esempio, le imprese che erogano un congedo parentale retribuito, ottengono quasi un raddoppio degli utili, dal momento in cui forniscono ai dipendenti-genitori le risorse necessarie per conciliare lavoro e vita privata. Si tratta di risultati supportati dalla Social Exchange Theory, che suggerisce che i lavoratori si sentano in un certo senso “obbligati” a restituire il favore ai datori di lavoro in termini di impegno e dedizione quando vengono ricompensati con benefici aggiuntivi come, ad esempio, il sostegno alla genitorialità. Come il modello work-life fit tiene conto delle diverse esigenze culturali della famiglia, può essere presa in considerazione, in maniera più estesa, tale cura del benefit individuale ponendo attenzione a pesi specifici intergenerazionali, in particolare nelle politiche di welfare e people care. Pe quanto riguarda le nuove generazioni, ad esempio, sempre secondo il Rapporto Welfare Index PMI del 2022, la presenza di giovani con meno di 30 anni, mediamente del 20%, è correlata al livello di welfare: da una quota del 18% nelle aziende a livello di welfare iniziale ad una del 22,1% in quelle con livello molto alto.