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Come fare onboarding di nuova generazione ed evitare i costi aziendali di un’esperienza negativa
Anche per le aziende non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione
4 Luglio 2022
- Un quarto dei neoassunti in media non rimane più di un anno in azienda
- Onboarding digitale, reale o ibrido? Le scelte strategiche per assicurare la retention di giovani e adulti
- L’incontro cruciale tra generazioni e cultura del lavoro è proprio alla porta di ingresso in azienda
Employee e newbie si aspettano sempre di più dalle aziende e, se non si sentono connessi e coinvolti, facilmente potrebbero intraprendere nuove strade professionali, anche dopo pochi mesi di vita aziendale.
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L’impatto economico diretto e indiretto che un cattivo onboarding ha per l’azienda è molto elevato: ai costi del recruiting si sommano infatti quelli di formazione e upskilling dei neoassunti e tutti i costi amministrativi dei periodi di ingresso in azienda, insieme al tempo investito nel training e quello dedicato dai colleghi per il “percorso iniziatico” all’interno del contesto organizzativo.
Le criticità che un’esperienza negativa di onboarding può attivare sono molteplici, anche perché banalmente significa dover spendere nuove energie per un’attività che non si immaginava di dover sostenere ricominciando da capo il processo di selezione. Perdere un/una dipendente troppo presto è un problema reale (giovane o adulto che sia).
D’altro canto, se implementato con successo, l’onboarding può garantire un maggiore coinvolgimento, una prontezza organizzativa e una vera fidelizzazione tra azienda e neoassunti, minimizzando i livelli di stress e ovviamente migliorando performance, profitti e benessere generale.
Tuttavia, pochissime aziende adottano un approccio di onboarding ben disegnato e sfruttano solo una parte del pieno potenziale di questa fase cruciale dell’employee experience.
L’Onboarding del futuro (e del presente)
Secondo gli studi di Christian Harpelund:- il 25% dei nuovi assunti lascia l’azienda entro i primi 12 mesi, il 48% di newbies al primo impiego si è dimesso entro i primi 18 mesi; il tempo medio di onboarding per generare la performance attesa è di 6,2 mesi per i nuovi assunti;
- il costo della perdita di un nuovo dipendente entro i primi 12 mesi equivale a 2 anni del suo stipendio;
- l’average tenure, ovvero la media di tempo di permanenza in azienda per le nuove generazioni è inferiore ai 2 anni e le aziende con processi di onboarding strutturati e ben progettati riescono ad ottenere una produttività superiore del 54% dai loro nuovi assunti contemporaneamente a un doppio livello di engagement.
Molte di queste situazioni di solito si sviluppano in maniera naturale e non è sempre necessario assegnare un “buddy” in maniera forzata, ma può essere importante, ad esempio, mappare competenze e conoscenze di chi è a bordo per poterle offrire e metterle a disposizione dei nuovi arrivati, affinché le “reclute” possano orientarsi sul know who e sapere a chi fare riferimento per i diversi momenti del proprio percorso di inserimento.
Digitale o reale? Tra Remote Onboarding e Onboarding Bootcamp
Forse più che in altri esercizi di riprogettazione dei processi aziendali, l’onboarding può diventare un’ottima palestra di riconoscimento dei segnali distonici che l’organizzazione trasmette tra comunicazione esterna ed interna, di focus sulla cura della reputazione e dell’attenzione ai valori e ai significati del lavoro (che abbiamo visto anche in altre occasioni non sono più un “nice to have”), di capacità di distinguere nei contenuti di un processo quelli che possono essere pre-registrati e digitalizzati, da quelli che inevitabilmente avranno bisogno dello “human touch” e probabilmente della presenza fisica. Sono tantissimi i neoassunti che nel periodo della pandemia hanno lamentato la difficoltà di integrarsi ed entrare nella sintonia aziendale solo esclusivamente attraverso il “full remote” e il lavoro a distanza. Ma è altrettanto vero che il remote onboarding può essere mantenuto in parte per permettere ai nuovi arrivati di “studiare” e informarsi su tutti quei contenuti di carattere pratico, sulle policy, sugli organigrammi, sui progetti ma anche sulle storie delle persone e sugli aneddoti aziendali. Detto questo anche l’onboarding, come le altre pratiche aziendali per provare a direzionarsi verso un futuro trasformativo, non può che essere centrato sul people caring, sul wellbeing e sulla work-life integration, perché per cogliere le nuove sfide con i nuovi arrivati, ogni azienda deve mettersi (e metterli) nelle condizioni di poter dialogare in modo inclusivo. Non a caso, tra le best practice di onboarding che solitamente vengono segnalate c’è quella di Facebook (Meta), che con un vero e proprio Bootcamp di 6 settimane ha l’obiettivo di portare la cultura aziendale ai nuovi assunti e dove, durante il processo, i dipendenti hanno la possibilità di connettersi alla missione dell’azienda e coltivarne i principi per iniziare a essere da subito produttivi e armonizzati con il contesto di riferimento. C’è un passaggio fondamentale che andrebbe sottolineato in questo frangente. La cultura è complessa perché può essere invisibile: se un nuovo dipendente deve essere ben inserito in una cultura organizzativa, è necessario che l’organizzazione se ne curi attivamente e si sforzi di renderla visibile, chiara e senza fraintendimenti di linguaggio e azioni. Senza scomodare troppo i modelli di Edgar Schein sugli “strati” della cultura organizzativa, è palese che l’onboarding non può riguardare solo gli “Artefatti” culturali visibili e (dove si riesce a rappresentarli efficacemente) i Valori aziendali. Sono proprio gli “Assunti” sotto la superficie culturale della piramide ribaltata di Schein su cui oggi si gioca la partita della retention, ma anche dell’attraction di nuove leve: poiché l’unicità di certe dinamiche culturali può davvero caratterizzare in maniera distintiva un’azienda al posto di un’altra, e può essere il motivo per comunicare autenticamente alle nuove generazioni in maniera vincente, oltre che ad assottigliare le possibilità di disillusione e di gap che abbiamo descritto in principio. Forse serve davvero l’antropologo o l’etnografo cultura in azienda, poiché la cultura è complessa e perché può essere inconscia. È l’ironia delle norme di cui spesso siamo inconsapevoli finché gli altri non le seguono: improvvisamente diventano visibili a tutti e si formano proprio a partire da quei comportamenti che spesso non sono osservati ed esplicitati. Spesso, queste distonie tra regole e comportamenti formali e informali, emergono con forza proprio al momento dell’onboarding e dell’avvicendamento di culture “esterne” che subentrano nell’organismo organizzativo. E sia le “norme” che abbiamo come organizzazione, sia le “norme” che il nostro nuovo assunto porta con sé, hanno a che fare con l’inclusione culturale e… generazionale.Intergenerazionalità e storytelling nelle nuove strategie di onboarding
Pensateci per un secondo. Ogni volta che si parla di “ricambio generazionale” in azienda o di importanza di trasmettere la cultura organizzativa dei “senatori” aziendali c’è alla base il momento cruciale dell’onboarding. Fino a qualche tempo fa era consueto anche sentir parlare di “aziendalizzazione” dei nuovi assunti, un termine infelice ma che rappresentava significativamente che per fare un percorso evoluto di carriera in un contesto organizzativo di una certa rilevanza in termini numerici, era necessario acquisire un mindset allineato ad una determinata cultura organizzativa, poiché il mondo aziendale sa essere,se vuole, un mondo a sé stante e anche piuttosto scollato dalle altre realtà del lavoro.
Come abbiamo visto il paradigma ha però bisogno di cambiare per evitare una fuga prematura dei nuovi assunti, in un contesto di mercato così fluido ma anche fragile. Abbiamo visto quanto sia rilevante indagare gli assunti organizzativi più profondi e le dinamiche etnografiche per raccontarle e trasmetterle con autenticità ed efficacia alle nuove generazioni.
Ma proprio perché di conflitto generazionale si tratta, tra una cultura del lavoro che ha dei valori maturati in decine di anni di azienda, a volte tramandate direttamente dai fondatori o dai padri dei fondatori con quelle nuove, acerbe, ma inevitabilmente più vicine al presente e alla realtà, il lavoro da compiere è proprio quello di mettere in contatto queste anime culturali dell’azienda per poter disegnare un onboarding che tenga conto dei principi e dei valori da tramandare, delle buone pratiche e dei rituali di successo, ma anche dello stile giusto per poter raggiungere al meglio il cuore e la mente di chi inizia un percorso in un nuovo contesto ambientale.
Come nei trasferimenti all’estero è fondamentale la relazione con i nativi e le loro storie, anche nell’onboarding diventa imprescindibile lo storytelling come strumento di inclusione culturale.
Raccontare gli aneddoti, le vicissitudini, le imprese che team di lavoro o intere funzioni sono riuscite ad affrontare dalla viva voce dei protagonisti è una ricchezza immensa. Avere una “mediateca” di queste storie da far fruire ai neofiti, giovani o adulti che siano, può essere una leva strategica non indifferente. Magari attraverso il potere dell’ascolto e del podcasting, oppure attraverso momenti di buddy time dedicati alle narrazioni, o anche solo attraverso la possibilità di sviluppare un networking sociale strutturato all’interno dell’organizzazione.
Ma permettiamo in azienda di far disegnare tutto questo a senior e junior insieme. Giovani che hanno appena vissuto la candidate experience e possono segnalare tutti i touchpoint di miglioramento del processo, del linguaggio e degli stili da rendere meno “cringe”, insieme ad adulti di lungo corso aziendale o opinion leader informali di tutte le generazioni che possano veicolare appieno la ricchezza dell’esperienza lavorativa e del micro-universo di ogni realtà.
Ogni azienda può essere è un vero e proprio romanzo da suggerire a chi la vuole studiare in profondità.
