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Instagram ci ha trasformati tutti in venditori e marketer (ma forse c’è ancora speranza)
C'è ancora chi usa Instagram per il piacere di farlo e non solo per vendere?
15 Aprile 2019

Instagram è un luogo pieno di venditori e network marketer
Che sia per lavoro, o semplicemente perché la piattaforma stessa ti induce a questo comportamento, qualunque persona sembra vendere qualcosa su Instagram. Anche semplicemente un’immagine di sé stessi edulcorata, patinata, idealizzata, da influencer. Tanto che, a un certo punto, cominci a chiederti: “Ma c’è ancora qualcuno là fuori che utilizza Instagram solo per il piacere di farlo?”.

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Instagram può far male?
E quindi? Se oggi su Instagram siamo tutti circondati da venditori, di beni fisici o digitali, di immagini, di capacità o di stili di vita, allora perché stiamo tutti sempre lì? Perché, neanche serve che lo dica, siamo dei “drogati”. Nel 2017 un’associazione benefica inglese, la Royal Society for Public Health (RSPH), ha condotto una ricerca sui risultati dell’utilizzo nei giovani dei principali social network, su parametri come la FOMO, l’autostima, ma anche il sonno e la depressione. Indovinate un po’ chi ha “vinto” come peggior social? Esatto, Instagram. Che con le Stories punta tutto sulla FOMO, creando una forma di dipendenza che ci spinge ad andare a controllare cosa succede sulla piattaforma per non rischiare di perderci qualcosa. Che, come sostiene la ricerca, si basa quasi unicamente sulla bellezza delle immagini, senza contesto e senza approfondimenti, stimolando sentimenti di inadeguatezza e ansia; ma anche ignoranza del contesto sociale e percezione di una bolla di consenso. In più, il sistema di scroll-down continuo di foto disincentiva l’interazione, stimolando una fruizione passiva di contenuti che, come ha dichiarato Facebook stessa nel 2017, “tende a rendere più tristi le persone dopo l’utilizzo”. Chiaramente Zuckerberg non intendeva puntare il dito contro il suo secondogenito adottivo: voleva stimolare la partecipazione attiva degli utenti e non passiva sui social. Ma ci sono più letture di questa frase, tutte altrettanto corrette. Insomma, l’intero sistema sembra alimentare una vera e propria dipendenza, che proprio come le droghe, si basa sul rilascio di endorfine. Un Cuore, un commento, un nuovo follower sono vere e proprie iniezioni di consenso sociale, che ci risucchiano nel meccanismo sempre di più. LEGGI ANCHE: Perché i social media possono far calare l’autostima negli adolescenti
Instagram (e i social) come strumento
È un po’ come la politica. Non importa quanto siano buone le intenzioni, è facile farsi risucchiare. Avete visto Suburra, no? Essendo Instagram diventato quello che è diventato, per molte persone, soprattutto professionisti del digitale in varie forme, “non si può non esserci”. Essendo Instagram diventato quello che è diventato, per “esserci” bene bisogna crescere. E non è una questione di vanità, del piacere di vedere una K dopo il numero sotto la voce Follower. Faccio un esempio: con meno di 10.000 follower non si possono mettere link esterni nelle Stories. È chiaro che, per chiunque basi il proprio lavoro su un sito web esterno, diventa molto importante riuscire a raggiungere quella soglia. Poi c’è anche chi cerca di crescere solo per il gusto di farlo, ma quella è un’altra storia. Fatto sta che, per crescere nell’Instagram di oggi, ci sono molti modi. Certo, la qualità. Certo, la costanza. Certo, la nicchia, lo stile unico, etc etc. Ma ci sono anche altre tecniche, che vengono definite “non etiche”. Bot, cioè programmi che interagiscono al posto nostro stimolando le interazioni con il profilo; Pod, cioè gruppi di scambio di engagement, e molto altro. Ma ha senso parlare di etica in questo contesto? Perché utilizzare un Bot non è etico, quando tutto ciò che fa è fare follow/unfollow, ma pagare per un’inserzione sulla piattaforma da mostrare a un certo target invece sì?
Sara Melotti di BehindTheQuest, bravissima fotografa, ottima scrittrice, ma anche ex-utilizzatrice di tutte queste tecniche per acquisire il suo status di influencer su Instagram, ha scritto un post polemico in merito. Che ad un certo punto del 2017, giustamente stufa di come il mondo di Instagram stava andando, ha deciso di denunciare la cosa (diventando in questo modo, paradossalmente, davvero un’influencer). Stimo molto quello che ha fatto e i bellissimi testi che ha dedicato al tema. Ma una domanda sorge spontanea: “Sarebbe Sara Melotti stata ascoltata se non avesse utilizzato quelle tecniche?”. Insomma, ha fatto outing dall’alto di un profilo che contava già tantissimi follower e con un post che è stato quindi visto da migliaia di persone. Quindi qual è il punto, ti chiederai arrivato a leggere fino a qui? Cancellarsi da Instagram? Forse. Ma io non lo farò. Non posso, perché ci lavoro; e non voglio, perché è comunque un contesto sociale e “sociologico” della nostra epoca, di cui voglio essere a conoscenza e far parte. Posso combattere la mia battaglia personale per l’approfondimento dei temi su Instagram, a forza di caption lunghe e descrittive su topic a me cari, ma per il resto dovrò adeguarmi a ciò che vuole l’algoritmo e il pubblico. Vorrei che da questo lungo articolo emergesse una sola cosa: la consapevolezza. La capacità di vedere con distacco il luccicante mondo di Instagram, con le sue insidie per la nostra salute mentale e autostima. Ma anche di fare scelte consapevoli su come ci comportiamo sulla piattaforma. Soprattutto, la consapevolezza di farci le domande giuste, perché da lì partono le giuste risposte. Viviamo in un mondo, e in dei social, complessi. Probabilmente, a meno di non cancellarci completamente dal web e ritirarci a vivere da eremiti, c’è una cosa sola che possiamo fare: conoscere il più possibile il sistema. Perché la conoscenza ci permette di esercitare quel po’ di controllo che possiamo avere, ma a cui spesso rinunciamo, così impegnati a fare scroll-down.